Il cielo blu che sa di speranza, oltre che d’estate. Anche su Capaci, anche su quel tratto di autostrada divenuto tristemente famoso in tutto il mondo per quella strage del 23 maggio 1992.
Il sole picchia forte sull’obelisco costruito accanto alla corsia autostradale e che custodisce cinque nomi indimenticabili. Sono quello del Giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti della scorta Rocco Di Cillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro. Sono i nomi di cinque persone la cui vita è stata rapita e inghiottita da cosa nostra e dalla sua strategia stragista. Sono passati 31 anni.
C’era il sole anche in quel 23 maggio 1992. Un pomeriggio di primavera inoltrata che sapeva già d’estate. C’era il sole anche in quel tratto di autostrada, sotto il quale due giorni prima era stato collocato l’esplosivo al tritolo. La mafia era pronta a colpire venerdì 22 maggio, ma il giudice Falcone – del quale ormai i mafiosi conoscevano ogni abitudine passo dopo passo – aveva spostato di un giorno il suo ritorno a Palermo.
Sabato 23 maggio, pomeriggio. Giovanni Falcone chiama da Roma il suo autista. Lo informa sull’orario di atterraggio del suo volo a Punta Raisi. Arriverà poco dopo le 17,30. E così, a sua volta, Giuseppe Costanza avvisa la scorta. Viene preparata l’auto blindata. E anche lì, gli occhi di cosa nostra sono pronti a immagazzinare i dati di quello spostamento per trasmetterli al commando di morte.
Su una altura si sono appostati intanto Giovanni Brusca e Nino Gioè. Dall’alto hanno tutta la situazione sotto controllo. Spunta la carovana di auto che scortano il giudice. Sono le 17.55 quando il commando preme il pulsante del telecomando e scatena l’inferno. Il giudice Falcone morirà appena arrivato in ospedale, insieme a lui perdono la vita la sua Francesca e tre uomini della sua scorta.
La mafia colpì al cuore la magistratura e, con essa, i siciliani giusti che in Giovanni Falcone vedevano un esempio, una speranza, un’ancora di salvezza.
Così lo ricordò l’amico fraterno e collega Paolo Borsellino, anche lui vittima del tritolo di cosa nostra: “La sua vita è stata un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amore verso Palermo, ha avuto ed ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene”.